martedì 17 marzo 2009

Club Lettura - Lettere d'amore

Il nostro Roberto Vecchioni interpreta 
Todas as cartas de amor... di Pessoa









Fernando Antonio Noguero Pessoa  - Fernando Antonio Noguero Pessoa, nasce e muore a Lisbona, nel breve spazio di tempo compreso tra il 1888 ed il 1935. Molte delle sue opere (quasi tutte pubblicate dopo la sua morte) le scrìve attribuendole ai suoi eteronimi, Alvaro de Campos, Ricardo Reis, Alberto Caeiro ed altri minori. Molti si sono soffermati sulla straordinarietà di questo autore e sulla sua originalità. A noi interessa soprattutto questo suo modo di essere e di non essere, relativo alla sensazione dolorosa e stupefacente di sentirsi attori di se stessi e dei propri sentimenti, interpreti di realtà modificate e modificabili da improvvisi quanto inaspettati camb di scena su un palcoscenico in cui si susseguono maschere tragiche, poi comiche, poi ancora tragiche, ad libitum, e che mutano in misura dei nostri stessi disperati mutamenti. Ci interessano le sue "voci di dentro" attraverso le quali esprime la propria lucida inquietudine. E con Pessoa ci domandiamo se il poeta è davvero un fingitore e se è vero che "finge così completamente che arriva a fingere che è dolore il dolore che davvero sente". E poco importa se il dolore nasce dai sogni, dalla paura della follia, dalla consapevolezza della propria solitudine o dalla grande indifferenza delle stelle. È dolore, comunque.


A tutte le lettere d'amore

Tutte le lettere d'amore sono
 ridicole.
 Non sarebbero lettere d'amore se non fossero
 ridicole.
 Anch'io ho scritto ai miei tempi lettere d'amore,
 come le altre,
 ridicole.
Le lettere d'amore, se c'è l'amore,
devono essere
ridicole.
Ma dopotutto
solo coloro che non hanno mai scritto
lettere d'amore sono
ridicoli.
Magari fosse ancora il tempo in cui scrivevo senza accorgermene lettere d'amore
ridicole.
La verità  è che oggi sono i miei ricordi di quelle lettere a essere ridicoli.

(Tutte le parole sdrucciole, come tutti i sentimenti sdruccioli, sono naturalmente ridicole).



20.6.1931



DA “IL LIBRO DELL’INQUETUDINE”, Adelphi Editore
Questa è una giornata nella quale mi pesa, come un in­gresso in carcere, la monotonia di tutto. Ma la monotonia di tutto non è altro che la monotonia di me stesso. Ciascun vol­to, anche lo stesso che abbiamo visto ieri, oggi è un altro, perché oggi non è ieri. Ogni giorno è il giorno che è, e non ce n'è mai stato un altro uguale al mondo. L'identità è solo nel­la nostra anima (l'identità sentita con se stessa, anche se fal­sa), attraverso la quale tutto si somiglia e si semplifica. Il mondo è cose staccate e spigoli distinti; ma se siamo miopi, esso è una nebbia insufficiente e continua.
Il mio desiderio è fuggire. Fuggire da ciò che conosco, fuggire da ciò che è mio, fuggire da ciò che amo. Desidero partire: non verso le Indie impossibili o verso le grandi isole a Sud di tutto, ma verso un luogo qualsiasi, villaggio o ere­mo, che possegga la virtù di non essere questo luogo. Non voglio più vedere questi volti, queste abitudini e questi gior­ni. Voglio riposarmi, da estraneo, dalla mia organica simula­zione. Voglio sentire il sonno che arriva come vita e non co­me riposo. Una capanna in riva al mare, perfino una grotta sul fianco rugoso di una montagna, mi può dare questo. Pur­troppo soltanto la mia volontà non me lo può dare.
La schiavitù è la legge della vita, e non c'è altra legge per­ché questa deve compiersi, senza possibile rivolta o rifugio da trovare. Certuni nascono schiavi, altri diventano schiavi, ad altri ancora la schiavitù viene imposta. L'amore codardo che tutti noi proviamo per la libertà (libertà che, se la cono­scessimo, troveremmo strana perché nuova, e la rifiuterem­mo) è il vero indizio del peso della nostra schiavitù. Io stes­so, che ho appena detto che desidererei una capanna o una grotta per essere libero dalla noia di tutto, che poi è la noia che provo per me, oserei forse andare in quella capanna o in quella grotta consapevole che, dato che la noia mi appartie­ne, essa sarebbe sempre presente? Io stesso, che soffoco do­ve sono e perché sono, dove mai respirerei meglio se la ma­lattia è nei miei polmoni e non nelle cose che mi circondano? Io stesso, che ardentemente sogno il sole puro e i campi libe­ri, il mare visibile e l'orizzonte largo, chissà se mi adatterei al letto o al cibo o a non dover scendere otto rampe di scale per arrivare alla strada o a non entrare nella tabaccheria dell'angolo o a non scambiar il buongiorno con l'ozioso bar­biere.
Quello che ci circonda diventa parte di noi stessi, si infil­tra in noi nella sensazione della carne e della vita e, quale bava del grande Ragno, ci unisce in modo sottile a ciò che è prossimo, imprigionandoci in un letto lieve di morte lenta dove dondoliamo al vento. Tutto è noi e noi siamo tutto; ma a che serve questo, se tutto è niente? Un raggio di sole, una nuvola il cui passaggio è rivelato da un'improvvisa ombra, una brezza che si leva, il silenzio che segue quando essa ces­sa, qualche volto, qualche voce, il riso casuale fra le voci che parlano: e poi la notte nella quale emergono senza senso i ge­roglifici infranti delle stelle.
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(219)
Sento il tempo come un enorme dolore. Abbandono sem­pre ogni cosa con esagerata commozione. La povera stanza d'affitto dove ho passato alcuni mesi, il tavolo dell'albergo di provincia dove sono stato sei giorni, perfino la triste sala d'attesa della stazione dove ho speso due ore aspettando il treno: sì, le cose buone della vita mi fanno male in modo me­tafisico quando le abbandono e penso, con tutta la sensibilità dei miei nervi, che non le vedrò ne le avrò mai più, perlome­no in quel preciso ed esatto momento. Mi si apre un abisso nell'anima e un soffio freddo dell'ora di Dio mi sfiora il volto livido.
Il tempo! Il passato! [...] Ciò che sono stato e non sarò mai più! Ciò che ho avuto, e non riavrò! I Morti! I morti che mi hanno amato nella mia infanzia. Quando li evoco la mia ani­ma si raffredda e io mi sento esiliato dai cuori, solo nella notte di me stesso, piangendo come un mendicante il silenzio sbarrato di tutte le porte.

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(476)
Ah, quale errore doloroso e crasso la distinzione che i ri-voluzionari stabiliscono fra borghesi e popolo, fra nobili e popolo, fra governanti e governati! La distinzione è piuttosto
fra adattati e disadattati: il resto è letteratura, e cattiva let­teratura. Il mendicante, se è un adattato, domani può essere re, però con ciò ha perso la virtù di essere mendicante. Ha passato la frontiera e ha perso la nazionalità.
È questo che mi consola in quest'ufficio angusto le cui fi­nestre mal lavate danno su una strada priva di allegria. Que­sto mi consola e in ciò ho come fratelli i creatori della co­scienza del mondo: il drammaturgo sbalestrato William Shakespeare, il maestro di scuola John Milton, il vagabondo Dante Alighieri, [...] e perfino, se mi è consentita la citazione, quel Gesù Cristo che non è stato niente nel mondo, tanto che la Storia dubita di lui. Gli altri sono di un'altra specie: il consigliere di Stato Johann Wolfgang von Goethe, il senatore Victor Hugo, il capo Lenin, il capo Mussolini.
Noi, nell'ombra, con i facchini e con i barbieri, costituia­mo l'umanità.
Da una parte ci sono i re, con il loro prestigio, gli impera­tori con la loro gloria, i geni con la loro aura, i santi con la loro aureola, i capi del popolo con la loro autorità, le prosti­tute, i profeti e i ricchi... Dall'altra ci siamo noi: il facchino dell'angolo della strada, il drammaturgo sbalestrato William Shakespeare, il barbiere delle barzellette, il maestro di scuo­la John Milton, il garzone della bottega, il vagabondo Dante Alighieri, coloro che la morte dimentica o consacra, o che la vita ha dimenticato e non ha consacrato.





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